sabato 1 ottobre 2016

La morte del Rock



E va bene.
Che doveva morire insomma era cosa certa.
Ma non era quel dovere che lo importunava, non era la memoria del giorno della scoperta.
Era il soccombere o meglio l’eventualità di soccombere che dilaniava la sua mente.
Quel giorno, quando seppe con certezza che la sua vita sarebbe finita presto, provò una delusione esile come quella vissuta anni prima quando seppe che i regali non li portava il vecchio barbone.
“Lei morirà!” asseriva il dottore con fare costernato e allo stesso tempo distaccato anni luce in quel completo troppo bianco austero.
“Bella scoperta.”
Quando un bambino pensa alla morte, è solo un bambino che pensa, ma quando un uomo afferra il concetto della morte, allora cambia tutto, allora forse vuol dire che è vecchio, che ha vissuto un po’ e che le campane suonano per lui.
“Hell bells!”  sussurrò.
E magari era il momento per farsi venir fuori un hobby, tanto per non pensare… come quel vecchio barbone… quello dei regali.
I dottori consigliano sempre di dedicarsi agli hobby per non pensare al determinato trauma subito e per non sconvolgersi del fatto di prendere coscienza.
Questo non aveva sconvolto certo Rock..
Rock era un musicista… appunto, uno dei favolosi anni sessanta, e ora un pensatore stanco, solo e dissidente. Pensatore dei favolosi anni sessanta nel nuovo millennio.
Il non plus ultra.

Appena saputa la sua tragica diagnosticata fine aveva mollato tutto ed era partito per il suo ultimo sogno.
“Ogni sogno sa che morirà al risveglio…” E vai con l’ottimismo.
Sorrideva salendo in macchina.
La gente che lo conosceva pensava “… ecco il Rock sta per morire e gli è schizzato il cervello.”
Altri erano convinti che “Il Rock è morto da tempo.”
“Ma si sa, le persone sono come la gente… fino a che non le conosci cazzo sai quello che pensano…” Rock usava sempre questa frase per prendere per il culo, alternava questa a quest’altra… “Non so se non sono sicuro che i tempi stanno cambiando e che per la razza umana andrà sempre meglio…e viceversa.”

Doppia negazione. E il viceversa che dava quel tocco di effervescenza demente alla frase… anche quella più profonda.
Ma la filosofia era di uno che stava morendo, ma non uno così.
Stava morendo il Rock!
Lui aveva preso con filosofia, come si suol dire e vedeva questa notizia oltremodo vantaggiosa.
“Meglio che morire d’infarto un giorno di sole mentre fai qualcosa con qualcuna nuda in un posto ricercato..”
Alla sua età mollò il poco che aveva, e un bel giorno salutò le donne e gli amici, un giorno rosso porpora…e prese l’aereo e saltò all’altro capo del mondo, in una città dai sapori lontani che il vento spostava chissà perché ostinato. E continuò ad andare… fino ad arrivare a una casa fatta di legno, con un ruscello nel fianco e una montagna proprio dinanzi alla porta d’ingresso.
Himalaya…the mystic line between Earth and Heaven.
Diceva la scritta intarsiata da molto in quella piastra di legno.
Il solo rileggere lo catapultava indietro, un profluvio di emozioni e ricordi, e le dolci mani di quella donna… l’amore nella purezza innocente.
Entrava in casa asciugandosi le gocce di quel ricordo. Però la voglia di uscire, troppa storia tutta insieme.
Apriva la porta e Rock era al cospetto del monte affascinante e mistico della catena Himalayana.
All’interno di quel monte vi dimorava il dio Hanuman.
“Il dio metà uomo e metà scimmia..” coraggioso e impavido nei racconti della donna del suo passato.
Ma Rock aveva smesso da tempo di importunare gli dei.
Era deciso… sarebbe morto in onore al suo nome, al rock, alla libertà di azione, ridendo del pensiero scemo e romantico che sua madre gli aveva inculcato.
“Gli yippies? Una generazione dannosa.”
Rock lo pensava.
Una mattina lui si sarebbe alzato, e con la sua sacca della fortuna al braccio, quella con il quadrifoglio cucito, avrebbe salito il monte fino alla cima.
Era ardua impresa, ma come ultimo desiderio era il più bello che gli veniva in mente.
Voleva morire in alto, all’aria aperta. E se la sepoltura era la magia della rinascita terrena, lui desiderava rinascere nell’etere… in alto… sospinto dal vento, chissà dove ostinato.
Una mattina si svegliò pensando che fosse quella giusta, ma le mani tremavano troppo solo all’idea di partire. Un altro giorno il bruciore nel ventre era atroce. E così Rock nonostante la condizione effimera e distante rimandava sempre il ciak del suo ultimo desiderio da cinema.
Una notte la tosse era diventata tremenda e alzando gli occhi dal piccolo lavandino del bagno vide la sua faccia al limite della sopportazione.
Sorrise di circostanza.
Era questa la fine che l’aspettava? Se ne sarebbe andato così? Tra stenti e rinvii?
Il viso s’illuminò di quella luce e in quell’istante magico tra risa inaspettate le rughe segnate del volto si stirarono.
Rock prese la giacca, la sua sacca della fortuna che lo aveva accompagnato in storie importanti, un bel cappello, gli occhiali…era ovvio, e un bastone che si era preparato nei giorni prima. Aprì la porta e il monte sembrava sibilare nel vento della notte, pareva chiamare proprio lui.
“Ce la posso fare…” disse per darsi coraggio.
Un passo e poi un altro… sempre più deciso e quando si accorse che stava prendendo il sentiero per la salita si ricordò di aver lasciato la porta aperta e la luce accesa. Sorridendo si voltò ed ebbe un ultimo nostalgico ricordo di quando quella casa era calda e abitata, di quando lui piccolo era cresciuto libero, nascosto e protetto tra le montagne, con musica a 33 giri per colazione e aria fresca. Quella casa che era l’epicentro dei sogni di sua madre donna …
“Un giorno mi piacerebbe fuggire proprio sulla cima di questa montagna…” gli confessava spesso mentre Rock era piccolo e ascoltava i Zeppelin.
“E se ascolti molto attentamente…Prima o poi la melodia giungerà a te
Quando tutti sono uno e una cosa sola è tutto…Essere saldi come una roccia e non un sasso che rotola.” Canticchiava la madre nel turbinio delle sue rimembranze.

Quante note erano passate da quel giorno, e quante ancora stavano lì ad aspettare, nascoste nel vento che lo carezzava con un tocco conosciuto mentre saliva tra le ombre e i sassi.
Le note di sua madre, Musica… nascoste chissà da quanto nelle fragranze di quella brezza.
Musica non andò mai, non salì mai sulla cima, o forse lo fece segretamente quando Rock partì da grande per il suo giro di mondo.
Era tornato una sola volta e di sua madre nemmeno l’ombra. Solo un biglietto che regalava nella sua calligrafia rotondeggiante un saluto.
“Un giorno ti stringerò ancora…” firmato tua madre Musica.
Mentre saliva le cose sotto scendevano, rimpicciolendosi. La magia di quel posto… a metà strada tossì sangue, tanto per non farsi mancare nulla e dopo almeno due ore di cammino decise di fermarsi a bere un po’, un ultimo brindisi, anche se sapeva avrebbe accelerato il ritorno di fiamma dello stomaco.
Una sorsata e in alto il calice al cielo. La vetta era più vicina.
Quando trovò la strada rocciosa, il bastone si rivelò un ottimo sostegno e fischiettando “starway to heaven” salì gli ultimi metri che lo separavano dalla cima.
Cadde e si ferì. Sorrise nell’ormai.
La testa pulsava e batteva.
Sarebbe stato decisamente meglio portare una scala per raggiungere la vetta.
Rock ebbe un fremito… il bastone cedette all’eventualità di rompersi nel mezzo e del famigerato sostegno non rimase che lo schiocco al vento.
“Cara signora, senti il vento soffiare…E lo sapevi…Che la tua scala è fatta di vento che sussurra.” Le parole della canzone nell’aria sembravano sposate alla perfezione.
Pallide linee di luce anelavano giungere da lontano e Rock fece l’ultimo passo arrampicandosi sulla cima, ma l’appoggio era malagevole e la voce delle sue aspettative tardava a presentarsi.
Che fosse quella davvero la destinazione ultima del Rock?
Sotto lo stivale una pietra lambiva le attenzioni.
Era un intarsio simile a quelli yippies sugli alberi…in una rotonda e svenevole grafia.
Una grafia che attendeva chissà da quanti raggi, quante folate di vento insano e corrotto, chissà da quante ballate…
“…e se io stessi correndo e sorridendo verso i tuoi occhi, riusciresti a vedere tutta la libertà che vedo io ora?”
Quella era Musica per le sue orecchie.
Rock alzò lo sguardo.
La vallata sotto le prime luci era il modo giusto.
Aprì le braccia che aveva come ali e nel più grande stupore sorrise nel momento.
Rock is dead

“Chi possiede il tuo tempo, controlla la tua mente.

Libera il tuo tempo, e possederai la tua mente.”

José Argüelles


Il nostro tempo è diventato un incubo meccanizzato.
Siamo vittima dell’incantesimo pronunciato 5000 anni fa dai falsi sacerdoti babilonesi, usurpatori del potere matriarcale, e rafforzato 2000 anni fa da Giulio Cesare e Cesare Augusto, signori della guerra.
Da magia del qui e ora, eterno presente, il tempo è stato diviso in unità arbitrarie, svuotato del suo significato magico, ridotto a durata e rapportato al denaro, altra invenzione degli eunuchi.
Il complicato strumento che usiamo per misurare il nostro tempo è un potentissimo strumento occulto di potere e di controllo, e il suo uso prolungato ha prodotto una deviazione nella mente collettiva, portandoci a credere che tempo è denaro e che la guerra è lo standard di risoluzione dei conflitti.

Tempo è Arte, e noi siamo Arte incarnata nel Tempo

In Lak’ech (io sono un altro te stesso)